La nascita della Follia .
di Paolo Cardoso.
Io sento parlare in continuazione della follia, di cos’è, di come si sviluppa.
Però pochissime volte ho letto o sentito parlare di quando sia nata in noi, umani, la follia.
Gli animali ne soffrono pochissimo. In libertà solo per malattie od intossicazioni, in cattività per la mancanza di libertà o perché reclusi in stretti spazi.
Ma noi umani? Io credo che il momento in cui l’uomo prese coscienza di sé (che è ciò che manca agli animali) e si pose alcune domande quali: “Chi sono, dove vado, chi mi ha creato ecc.” e nel momento in cui percepì che sarebbe dovuto morire, lì iniziò ad apparire la follia.
Gli animali hanno paura della morte solo se minacciati, noi no, ce la portiamo sempre dietro.
In seguito ci ponemmo gli interrogativi su chi ci ha creato, su chi “gestisce” l’Universo, sul destino ecc.
Allora, piano piano, nacquero divinità legate ai fatti naturali e a tutto ciò che non si poteva comprendere con la razionalità.
Poi per noi occidentali arrivarono le divinità della Grecia antica, che erano così simili agli uomini, ma anche così diversi. Con l’impossibilità, non tanto di parlare, quanto di comprendersi.
Omero fa dire a Zeuss nell’Odissea: «Accagiona il mortal sempre gli Eterni! Originar da noi tutte sventure Dice, mentr’egli del destino in onta, Colpa di sue follie, soffre aspre doglie.”
Dopo molti secoli l’uomo trova un Dio solo e scopre il monoteismo. Ma anche con Lui non c’è un dialogo paritario. Basti pensare al povero Mosè o a Giobbe che quando chiede spiegazioni a Dio delle sue disgrazie, viene rimproverato perché Lui, in quanto Dio non deve né risposte né spiegazioni a nessuno.
Questa impossibilità del dialogo tra l’uomo ed le sue divinità crea una lacerazione profonda.
Noi ci sentiamo sperduti in questo Universo di cui alla fine capiamo ben poco. Ciò crea un’ansia di fondo terribile, che tutti ci portiamo addosso.
Allora la nascita della coscienza e lo iato che si è creato tra noi ed il divino fa nascere in noi la follia, ovvero la nostra incapacità a gestire comprendere ed organizzare la nostra vita solo con la razionalità.
La ragione inganna e ci ha spesso ingannato. Pensate alla fisica di qualche centinaio di anni fa. Oggi fanno i ridere le certezze di allora.
Solo i Greci ebbero intuizioni nella fisica e nella matematica, che ancor oggi risultano geniali, forse, azzardo, proprio perché loro ancora erano in contatto con un mondo divino, immaginifico, molto più presente di quanto non lo sia oggi.
Il nostro povero Io, galleggia su un inconscio potentissimo, senza tempo, schiacciato spesso da un Super Io che opprime e da un principio di realtà con concede poche sicurezze. L’Ideale dell’Io, ciò che davvero vorremmo essere, naufraga spesso nel mare della follia.
Allora occorre recuperare il nostro mondo emotivo, quello dei sentimenti e ricercare equilibri diversi.
Dio non è morto, ce lo siamo dimenticati. Nel senso che dobbiamo recuperare quegli aspetti delle grandi divinità, gli archetipi collettivi, che a nostra insaputa, sono ancora presenti in noi e ci governano.
Dobbiamo guardare le nostre “ombre” nel senso junghiano e sforzarci di mettere in moto il nostro principio di individuazione.
L’individuazione è un processo lento che non ha bisogno sempre dell’analisi. Anzi molte persone, con fatica, riescono a farlo ogni giorno da sole.
Non dobbiamo avere paura della nostra follia. Se usata bene è fonte di grande ispirazione.
Certo occorre molta prudenza perché ha ragione Nietzsche:
“Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te.”
Allora bisogna non far finta che la follia appartenga ad altri e non ci riguardi, ma integrarla in noi, con grande prudenza e gradualità.
Come i Greci si sono sempre rivolti agli Dei, altrettanto dobbiamo fare con noi stesso. Guardare ai nostri archetipi per raccogliere i loro messaggi e alla fine avvicinarci sempre di più a ciò che davvero vorremmo essere.
This entry was posted in Articoli, Risorse on 09/03/2016.
di Paolo Cardoso.
Io sento parlare in continuazione della follia, di cos’è, di come si sviluppa.
Però pochissime volte ho letto o sentito parlare di quando sia nata in noi, umani, la follia.
Gli animali ne soffrono pochissimo. In libertà solo per malattie od intossicazioni, in cattività per la mancanza di libertà o perché reclusi in stretti spazi.
Ma noi umani? Io credo che il momento in cui l’uomo prese coscienza di sé (che è ciò che manca agli animali) e si pose alcune domande quali: “Chi sono, dove vado, chi mi ha creato ecc.” e nel momento in cui percepì che sarebbe dovuto morire, lì iniziò ad apparire la follia.
Gli animali hanno paura della morte solo se minacciati, noi no, ce la portiamo sempre dietro.
In seguito ci ponemmo gli interrogativi su chi ci ha creato, su chi “gestisce” l’Universo, sul destino ecc.
Allora, piano piano, nacquero divinità legate ai fatti naturali e a tutto ciò che non si poteva comprendere con la razionalità.
Poi per noi occidentali arrivarono le divinità della Grecia antica, che erano così simili agli uomini, ma anche così diversi. Con l’impossibilità, non tanto di parlare, quanto di comprendersi.
Omero fa dire a Zeuss nell’Odissea: «Accagiona il mortal sempre gli Eterni! Originar da noi tutte sventure Dice, mentr’egli del destino in onta, Colpa di sue follie, soffre aspre doglie.”
Dopo molti secoli l’uomo trova un Dio solo e scopre il monoteismo. Ma anche con Lui non c’è un dialogo paritario. Basti pensare al povero Mosè o a Giobbe che quando chiede spiegazioni a Dio delle sue disgrazie, viene rimproverato perché Lui, in quanto Dio non deve né risposte né spiegazioni a nessuno.
Questa impossibilità del dialogo tra l’uomo ed le sue divinità crea una lacerazione profonda.
Noi ci sentiamo sperduti in questo Universo di cui alla fine capiamo ben poco. Ciò crea un’ansia di fondo terribile, che tutti ci portiamo addosso.
Allora la nascita della coscienza e lo iato che si è creato tra noi ed il divino fa nascere in noi la follia, ovvero la nostra incapacità a gestire comprendere ed organizzare la nostra vita solo con la razionalità.
La ragione inganna e ci ha spesso ingannato. Pensate alla fisica di qualche centinaio di anni fa. Oggi fanno i ridere le certezze di allora.
Solo i Greci ebbero intuizioni nella fisica e nella matematica, che ancor oggi risultano geniali, forse, azzardo, proprio perché loro ancora erano in contatto con un mondo divino, immaginifico, molto più presente di quanto non lo sia oggi.
Il nostro povero Io, galleggia su un inconscio potentissimo, senza tempo, schiacciato spesso da un Super Io che opprime e da un principio di realtà con concede poche sicurezze. L’Ideale dell’Io, ciò che davvero vorremmo essere, naufraga spesso nel mare della follia.
Allora occorre recuperare il nostro mondo emotivo, quello dei sentimenti e ricercare equilibri diversi.
Dio non è morto, ce lo siamo dimenticati. Nel senso che dobbiamo recuperare quegli aspetti delle grandi divinità, gli archetipi collettivi, che a nostra insaputa, sono ancora presenti in noi e ci governano.
Dobbiamo guardare le nostre “ombre” nel senso junghiano e sforzarci di mettere in moto il nostro principio di individuazione.
L’individuazione è un processo lento che non ha bisogno sempre dell’analisi. Anzi molte persone, con fatica, riescono a farlo ogni giorno da sole.
Non dobbiamo avere paura della nostra follia. Se usata bene è fonte di grande ispirazione.
Certo occorre molta prudenza perché ha ragione Nietzsche:
“Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te.”
Allora bisogna non far finta che la follia appartenga ad altri e non ci riguardi, ma integrarla in noi, con grande prudenza e gradualità.
Come i Greci si sono sempre rivolti agli Dei, altrettanto dobbiamo fare con noi stesso. Guardare ai nostri archetipi per raccogliere i loro messaggi e alla fine avvicinarci sempre di più a ciò che davvero vorremmo essere.
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Lilith, le streghe e la femminilità
di Paolo Cardoso
Visto che abbiamo parlato di seduzione forse è interessante approfondire la figura femminile Lilith, spesso collegata con la Luna nera, il lato invisibile e oscuro del nostro satellite.
La storia di Lilith nasce in Mesopotamia ma viene definita meglio nella religione ebraica.
Era la prima moglie di Adamo, da lui ripudiata perché non gli obbediva. E’ poi progressivamente divenuta una figura demoniaca portatrice di ogni tipo di disgrazia.
Essa divenne la femminilità rimossa, nemica dei figli di Logos, non soggetta alle leggi della ragione.
Alla fine questo mito viene escluso, nascosto dall’istaurarsi del regime patriarcale, dell’imporsi della razionalità. Viene cancellato come repressione della sessualità femminile. L’uomo assoggetta al suo potere la donna/moglie (Eva) , depositaria del compito di fare la “mater familiae” creatrice della prole, e la contrappone alle donne di facili costumi, prostitute o amanti di comodo (Lilith) con cui vivere ogni sfrenata sessualità, ma reiette del mondo.
Nelle mitologia ebraica Adamo incontro prima Lilith di Eva. La poveretta, schiacciata dalla figura etico morale di Adamo penso bene di andarsene dal Paradiso terrestre. (Anche perché doveva essere di una noia mortale!).
Dopo si unì ad una banda di demoni (certo più divertenti degli angeli) con i quali generò dei figli.
Lilith viene rivalutata nelle religioni neopagane del 1800 e fu assunta a figura da opporre al potere paterno.
La sua figura diviene poi oggetto di studi da parte di molti psicoanalisti.
Progressivamente al recupero della femminilità profonda della donna da parte degli studi psicoanalitici e poi dei movimenti femministi riemerge il mito di Lilith e citando Hilmann “…ci parla di ciò che è attuale nella realtà psichica” (Saggio su Pan Ed. Adelphi).
Molto interessante un libro della Prof. Maria Teresa Colonna “Lilith e la luna nera” (ed. del Riccio), oggi di difficile reperibilità, ma molto interessante da leggere.
Consiglio anche la voce Lilith di Wikipedia, fatta molto bene.
Nella letteratura moderna appare in molti racconti, dal Faust di Goethe alle Cronache di Narnia.
Interessante è notare che nei tarocchi quello della “luna nera”, tarocco n. XVIII rappresenta anche la Lilith (la faccia di donna dentro il sole e la luna in alto) ovvero il potere dell’inconscio femminile che si ribella. Ma simboleggia anche l’illusione e la notte.
E’ la parte femminile sopita che l’abile seduttore riesce a risvegliare. E’, per molte donne, la sessualità proibita, legata alla sessualità più nascosta e non vissuta.
E’ l’avventura straordinaria che attrae in modo irresistibile.
Insomma una figura mitologica molto ignorata che invece meriterebbe di essere conosciuta meglio. Per chi volesse fare, oltre ai tesi sopra citati, rimando all’ottima bibliografia presente in Wikipedia.
Prossimamente parleremo di…streghe!...e pirati!
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La sindrome delle “principesse tristi”
Di Paolo Cardoso
Nel nuovo DSM V la catalogazione delle malattie psichiatriche non troverete questa sindrome.
Però esiste e come. Quante ragazze hanno difficoltà a creare relazioni d’amore durature. Riescono ad avere magari storie brevissime, più che altro legate al sesso, ma non storie che persistono nel tempo.
Spesso però la sessualità è vissuta come un piacere intenso ma momentaneo. Poi tutto finisce lì. C’è la difficoltà ad affidarsi, a concedersi all’altro nella propria interezza.
Non riescono a idealizzare l’altro. Ad avere fiducia in se stesse. Sono ragazze che spesso hanno grandi risultati nel campo del lavoro, che investono moltissime energie nella realizzazione dei propri obiettivi di studio e/o lavoro.
Rimangono chiuse all’interno del proprio sé. Magari hanno grandi amiche che spesso hanno bisogno di aiuto, il che le gratifica dal punto di vista narcisistico. Per questo non si sentono isolate. Il lavoro e gli amici riempiono gli spazi della vita.
Ma dove nasce questa patologia? Spesso è molto complesso trovare l’origine perché non vi è solo una causa.
Sono ragazze che hanno avuto un rapporto difficile in famiglia. Spesso Sono la prima o l’ultima di un gruppo di fratelli. Hanno avuto una mamma ambivalente che ha espresso amore ma anche aggressività. Mamme invidiose del ruolo che via via, crescendo la figlia acquisisce. Un babbo spesso assente per lavoro e comunque debole. Invece di porsi come mediatore tra la mamma e la figlia è sfuggito a questo ruolo. La figlia pertanto si è sentita trascurata dal padre e non si è completamente identificata con la madre.
A volte sono ragazza che hanno subito abusi sessuali o sono state abbandonate in malo modo dal loro primo amore.
All’origine c’è uno o più traumi ed una mamma che a volte è stata amorevole ma a volte matrigna e strega cattiva.
Queste situazioni familiari lasciano ferite profonde che influenzano la capacità di fare in seguito investimenti affettivi sani.
Le “principesse tristi” hanno cercato di differenziarsi da questo tipo di mamme investendo tutto su loro stesse per dimostrare a tutti che erano brave. Ma questo sicuramente a acuito l’invidia inconscia della mamma. Si crea una spirale che non si riesce ad interrompere e spesso i miglioramenti ci sono solo quando la figlia si stacca dal nucleo familiare.
Queste “principesse tristi” hanno spesso un disturbo di personalità borderline con la presenza di caratteri ossessivi. Come dicevo prima l’ossessività nel raggiungere gli obiettivi di studio o lavoro.
Lo strano è che quando incontrano partner che si mostrano disponibili e carini, invece di cercare di fare investimenti profondi fuggono. Vi è una dissociazione tra i bisogni di tenerezze e quelli erotici, per cui spesso hanno difficoltà, con partner importanti a mantenere una sessualità.
In fondo la sessualità spiccia è un modo infantile di affrontare l’amore. Quello è una faccenda…da grandi! Richiede coraggio. Il coraggio di affidarsi ad un’altra persona.
Ma allora come se ne esce? Con una terapia spesso integrata tra psichiatra e psicoterapeuta. Molta calma e pazienza. Tra alti e bassi.
Quando una “principessa triste” incontra un possibile “principe azzurro”, se è consapevole della sua sindrome (il che non è detto), dovrebbe avere il coraggio di costruire piano piano un livello diverso di affettività rispetto a ciò che ha fatto sino ad allora.
Continuare con l’investimento sul lavoro e gli amici, ma farsi aiutare.
Oggi, in questo mondo di grandi difficoltà, di poco spazio per i sogni, se ci accade di trovare un principe o una principessa azzurra é bene avere il coraggio di sognare e di credere che le favole si realizzano se noi ci crediamo. Anzi se noi crediamo nella nostra capacità di poter cambiare, di poter investire su di noi per diventare persone migliori e più felici. Come si riconosce il principe azzurro? Difficile da dire. Perché ci emoziona, ma io credo perché con lui troviamo fondamentalmente una “complicità emotiva”.
Investire veramente in una persona e abbandonarsi a questa è la strada maestra che ci porta a scoprire la nostra capacità di amare e di essere amati per ciò che siamo.
Bisogna togliere tutte le sofferenze che sono state all’origine della sindrome. Bisogna portarle alla luce.
Ogni tanto ciascuno di noi si guarda riflesso in uno specchio che riflette tutta la figura e noi ci vediamo “interi”. Per persone che hanno patologie borderline è come riflettersi in uno specchio tutto frantumato. Vedono un’immagine frantumata come un puzzle o addirittura lo specchio è cosi rotto che in alcuni punti non riflette niente.
Ci dice la Silvia Finzi: “Di solito noi troviamo solo ciò di cui abbiamo bisogno e vediamo solo ciò che vogliamo vedere. Non possiamo fare altrimenti” Diceva Freud che noi non siamo padroni in casa nostra. Perché il rimosso ci condiziona nelle nostre scelte e per divenire ciò che vorremmo essere dobbiamo superare i nostri traumi. Per far ciò ci serve un percorso di analisi che ci faccia ricordare, rivivere e rielaborare ciò che è stato rimosso, in modo da integrarlo nella nostra Persona e divenire ciò che siamo veramente. In analisi ci si “affida” al terapeuta e lì si impara che i si può “affidare” anche ad altri. Solo così riusciremo ad amare veramente.
In fondo nei miei lunghi anni di analisi è questo che ho imparato veramente. Ad amare.
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Di Paolo Cardoso
Nel nuovo DSM V la catalogazione delle malattie psichiatriche non troverete questa sindrome.
Però esiste e come. Quante ragazze hanno difficoltà a creare relazioni d’amore durature. Riescono ad avere magari storie brevissime, più che altro legate al sesso, ma non storie che persistono nel tempo.
Spesso però la sessualità è vissuta come un piacere intenso ma momentaneo. Poi tutto finisce lì. C’è la difficoltà ad affidarsi, a concedersi all’altro nella propria interezza.
Non riescono a idealizzare l’altro. Ad avere fiducia in se stesse. Sono ragazze che spesso hanno grandi risultati nel campo del lavoro, che investono moltissime energie nella realizzazione dei propri obiettivi di studio e/o lavoro.
Rimangono chiuse all’interno del proprio sé. Magari hanno grandi amiche che spesso hanno bisogno di aiuto, il che le gratifica dal punto di vista narcisistico. Per questo non si sentono isolate. Il lavoro e gli amici riempiono gli spazi della vita.
Ma dove nasce questa patologia? Spesso è molto complesso trovare l’origine perché non vi è solo una causa.
Sono ragazze che hanno avuto un rapporto difficile in famiglia. Spesso Sono la prima o l’ultima di un gruppo di fratelli. Hanno avuto una mamma ambivalente che ha espresso amore ma anche aggressività. Mamme invidiose del ruolo che via via, crescendo la figlia acquisisce. Un babbo spesso assente per lavoro e comunque debole. Invece di porsi come mediatore tra la mamma e la figlia è sfuggito a questo ruolo. La figlia pertanto si è sentita trascurata dal padre e non si è completamente identificata con la madre.
A volte sono ragazza che hanno subito abusi sessuali o sono state abbandonate in malo modo dal loro primo amore.
All’origine c’è uno o più traumi ed una mamma che a volte è stata amorevole ma a volte matrigna e strega cattiva.
Queste situazioni familiari lasciano ferite profonde che influenzano la capacità di fare in seguito investimenti affettivi sani.
Le “principesse tristi” hanno cercato di differenziarsi da questo tipo di mamme investendo tutto su loro stesse per dimostrare a tutti che erano brave. Ma questo sicuramente a acuito l’invidia inconscia della mamma. Si crea una spirale che non si riesce ad interrompere e spesso i miglioramenti ci sono solo quando la figlia si stacca dal nucleo familiare.
Queste “principesse tristi” hanno spesso un disturbo di personalità borderline con la presenza di caratteri ossessivi. Come dicevo prima l’ossessività nel raggiungere gli obiettivi di studio o lavoro.
Lo strano è che quando incontrano partner che si mostrano disponibili e carini, invece di cercare di fare investimenti profondi fuggono. Vi è una dissociazione tra i bisogni di tenerezze e quelli erotici, per cui spesso hanno difficoltà, con partner importanti a mantenere una sessualità.
In fondo la sessualità spiccia è un modo infantile di affrontare l’amore. Quello è una faccenda…da grandi! Richiede coraggio. Il coraggio di affidarsi ad un’altra persona.
Ma allora come se ne esce? Con una terapia spesso integrata tra psichiatra e psicoterapeuta. Molta calma e pazienza. Tra alti e bassi.
Quando una “principessa triste” incontra un possibile “principe azzurro”, se è consapevole della sua sindrome (il che non è detto), dovrebbe avere il coraggio di costruire piano piano un livello diverso di affettività rispetto a ciò che ha fatto sino ad allora.
Continuare con l’investimento sul lavoro e gli amici, ma farsi aiutare.
Oggi, in questo mondo di grandi difficoltà, di poco spazio per i sogni, se ci accade di trovare un principe o una principessa azzurra é bene avere il coraggio di sognare e di credere che le favole si realizzano se noi ci crediamo. Anzi se noi crediamo nella nostra capacità di poter cambiare, di poter investire su di noi per diventare persone migliori e più felici. Come si riconosce il principe azzurro? Difficile da dire. Perché ci emoziona, ma io credo perché con lui troviamo fondamentalmente una “complicità emotiva”.
Investire veramente in una persona e abbandonarsi a questa è la strada maestra che ci porta a scoprire la nostra capacità di amare e di essere amati per ciò che siamo.
Bisogna togliere tutte le sofferenze che sono state all’origine della sindrome. Bisogna portarle alla luce.
Ogni tanto ciascuno di noi si guarda riflesso in uno specchio che riflette tutta la figura e noi ci vediamo “interi”. Per persone che hanno patologie borderline è come riflettersi in uno specchio tutto frantumato. Vedono un’immagine frantumata come un puzzle o addirittura lo specchio è cosi rotto che in alcuni punti non riflette niente.
Ci dice la Silvia Finzi: “Di solito noi troviamo solo ciò di cui abbiamo bisogno e vediamo solo ciò che vogliamo vedere. Non possiamo fare altrimenti” Diceva Freud che noi non siamo padroni in casa nostra. Perché il rimosso ci condiziona nelle nostre scelte e per divenire ciò che vorremmo essere dobbiamo superare i nostri traumi. Per far ciò ci serve un percorso di analisi che ci faccia ricordare, rivivere e rielaborare ciò che è stato rimosso, in modo da integrarlo nella nostra Persona e divenire ciò che siamo veramente. In analisi ci si “affida” al terapeuta e lì si impara che i si può “affidare” anche ad altri. Solo così riusciremo ad amare veramente.
In fondo nei miei lunghi anni di analisi è questo che ho imparato veramente. Ad amare.
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La geometria della cipolla.
Di Paolo Cardoso
Quando sono teso o nervoso (succede anche agli psicoterapeuti), io mi rilasso cucinando.
Mi piacciono i piatti tradizionali, ma anche la ricerca ad esempio, della cucina medioevale. Oppure invento rispetto anche a ciò che mi ritrovo nel frigorifero.
Io credo che la cucina ci appassioni tanto perché tutti mangiamo, ma mangiare bene è per molti una grande soddisfazione. Poi presentare bene un piatto diviene una forma d’arte. E’ una sfida continua con noi stessi ed è la ricerca continua della perfezione che ci intriga.
Così come la soddisfazione di vedere che ciò che abbiamo creato piace anche ad altri.
Io però pongo anche una grande attenzione a come “taglio” tutto ciò che serve a preparare il cibo. Normalmente non sono uno precisissimo, ma ad esempio io non faccio il battuto con la mezzaluna od il mixer, ma uso un coltello giapponese affilatissimo, tipo katana, che se mi distraggo…addio dito. Però tagliare una cipolla od una carota in pezzetti minuti, il più uguali possibili, richiede una concentrazione strepitosa! (ecco la geometria della cipolla).
Questo è in realtà ciò che ci rilassa.
Spostare l’attenzione dai problemi che ci assillano alla cipolla. Tra l’altro io non piango con le cipolle (nel medio evo sarei finito io arrosto…).
Pensare ad una nuova ricetta, uscire a comprare gli ingredienti, abbinare il vino ecc. ecc. serve tantissimo come terapia di coping anti stress e ve la consiglio caldamente.
Ed ora vi “propino” l’ultima mia creazione. Questa è una ricetta “romantica” per due persone.
Occorrono due pezzi di salmone, un po’ di mandorle, una carota, erba cipollina, un po’ di pan grattato, uno spicchio di aglio (se non vi piace non lo mettete).
Si tritano finemente 5 o 6 mandorle (io lo faccio a mano). Ci si aggiunge un pizzico di pan grattato e si mette da una parte. Poi si gratta la superfice di una carota (se grande mezza) e si fa a pezzetti minutissimi. Idem per l’erba cipollina.
Poi si fa un soffritto con olio, aglio (il suddetto spicchio), la carota e l’erba cipollina, a fuoco lentissimo. Si aggiunge un po’ di vino bianco (anche poveretto) e il sale. Poi quando si pensa che la carota si sia ammorbidita si mette il salmone e si aggiunge il trito di mandorle e pan grattato (poco pan grattato, mi raccomando). Quando è a metà cottura si gira il salmone, ricoprendolo di nuovo con le mandorle d in 10 minuti è pronto.
Abbinateci un prosecco o un Pecorino (il vino!), una bella apparecchiatura, due belle candele rosse romantiche e…buon appetito.
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Breve riflessione su “La filosofia serve ancora?”
Di Paolo Cardoso
Oggi ci si domanda: “ma la filosofia serve?”. In un tempo di alta tecnologia, di specializzazioni sempre più parcellizzate, la filosofia e più in generale la cultura hanno ancora un senso o ci si deve sempre più attendere che le persone si limitino a studiare ed apprendere il minimo indispensabile, tanto poi ci sono i traduttori on line, Google, Wikipedia ecc.
Ho recentemente ripensato ad ciò che scrive Aristotele nella “Metafisica”: “Conoscere e sapere sono fini a se stessi soprattutto la scienza il cui oggetto è conducibile nel grado più alto, perché chi sceglie il sapere per il sapere sceglierà soprattutto la scienza che è tale nel grado più alto” e oltre”…la sapienza non è un sapere produttivo.” Oppure “…gli uomini filosofarono per fuggire l’ignoranza è evidente che cercarono il sapere per il conoscere e non per trarne un utile.”
La filosofia (Iride) è generata da Taumante (la meraviglia) e proprio la meraviglia è ciò che accompagna la conoscenza.
Noi stiamo perdendo il gusto del bello, il brivido dell’opera d’arte che parla al nostro inconscio più profondo.
Ci manca sempre più la curiosità di leggere, ovvero di vedere il mondo attraverso gli occhi e le parole di un altro.
Ci manca sempre più il pensiero filosofico, rivolto alla ricerca di un sapere astratto e non finalizzato alla tecnica e al “fare”, ma che sia fine a se stesso e volto alla ricerca della ragione, di ciò che siamo e delle cause di ciò che facciamo e non rivolta a meri fini utilitaristici.
Ci manca la capacità di stupirci e di meravigliarci davanti all’opera d’arte.
Bisogna guardare con grande interesse alle ultime grandi scoperte della fisica quantistica che sempre di più ci sta mostrando un universo che è enormemente più complesso di ciò che pensavamo.
Una scienza che ammette, con un po’ di ironia, che anche se noi non riusciamo a comprendere le leggi che governano l’universo, questo continua tranquillamente ad esistere.
E’ però interessante che le scoperte che si susseguono nella fisica quantistica e che stanno unendo vasti campi delle scienze quali la fisica, le neuroscienze, la matematica, stanno appassionando gli scienziati anche ad una ricerca filosofica.
Un’analisi filosofica fine a se stessa che genera “meraviglia e stupore” e non solo negli scienziati.
Io penso che tutti noi dobbiamo fare un grande sforzo per riappropiarci del filosofeggiare rispetto all’uso della Teknè.
Forse capiremo meno come funziona il robot aspirapolvere di casa nosta, ma un po’ di più della nostra anima.
This entry was posted in Articoli, Risorse on 09/03/2016.
Di Paolo Cardoso
Oggi ci si domanda: “ma la filosofia serve?”. In un tempo di alta tecnologia, di specializzazioni sempre più parcellizzate, la filosofia e più in generale la cultura hanno ancora un senso o ci si deve sempre più attendere che le persone si limitino a studiare ed apprendere il minimo indispensabile, tanto poi ci sono i traduttori on line, Google, Wikipedia ecc.
Ho recentemente ripensato ad ciò che scrive Aristotele nella “Metafisica”: “Conoscere e sapere sono fini a se stessi soprattutto la scienza il cui oggetto è conducibile nel grado più alto, perché chi sceglie il sapere per il sapere sceglierà soprattutto la scienza che è tale nel grado più alto” e oltre”…la sapienza non è un sapere produttivo.” Oppure “…gli uomini filosofarono per fuggire l’ignoranza è evidente che cercarono il sapere per il conoscere e non per trarne un utile.”
La filosofia (Iride) è generata da Taumante (la meraviglia) e proprio la meraviglia è ciò che accompagna la conoscenza.
Noi stiamo perdendo il gusto del bello, il brivido dell’opera d’arte che parla al nostro inconscio più profondo.
Ci manca sempre più la curiosità di leggere, ovvero di vedere il mondo attraverso gli occhi e le parole di un altro.
Ci manca sempre più il pensiero filosofico, rivolto alla ricerca di un sapere astratto e non finalizzato alla tecnica e al “fare”, ma che sia fine a se stesso e volto alla ricerca della ragione, di ciò che siamo e delle cause di ciò che facciamo e non rivolta a meri fini utilitaristici.
Ci manca la capacità di stupirci e di meravigliarci davanti all’opera d’arte.
Bisogna guardare con grande interesse alle ultime grandi scoperte della fisica quantistica che sempre di più ci sta mostrando un universo che è enormemente più complesso di ciò che pensavamo.
Una scienza che ammette, con un po’ di ironia, che anche se noi non riusciamo a comprendere le leggi che governano l’universo, questo continua tranquillamente ad esistere.
E’ però interessante che le scoperte che si susseguono nella fisica quantistica e che stanno unendo vasti campi delle scienze quali la fisica, le neuroscienze, la matematica, stanno appassionando gli scienziati anche ad una ricerca filosofica.
Un’analisi filosofica fine a se stessa che genera “meraviglia e stupore” e non solo negli scienziati.
Io penso che tutti noi dobbiamo fare un grande sforzo per riappropiarci del filosofeggiare rispetto all’uso della Teknè.
Forse capiremo meno come funziona il robot aspirapolvere di casa nosta, ma un po’ di più della nostra anima.
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La differenza di età, in una coppia è un problema?
Paolo Cardoso
Spesso mi trovo a rispondere, come psicoterapeuta a questa domanda e un po’ mi fa sorridere. Perché? Perché è un falso problema.
“El amor es magia”, come dicono gli argentini. Ovvero non è spiegabile con la ragione, l’amore non “si capisce”, lo “si sente”!
Come dice la mia amica psichiatra Donatella Marazziti “l’amore è”. Allora perché scatta anche la dove c’è una grande differenza di età? Forse perché si ricerca una figura genitoriale, forse perché dà sicurezza, forse perché ci aiuta, bla bla bla…
In fondo anche nella Bibbia ci sono moltissime coppie felici con grande differenza di età!
Anche quando noi capissimo quali nostre carenze strutturali e/o psicologiche influissero sull’innamoramento, non avremmo risposto alla domanda.
Io credo che l’amore scatta dietro al potentissimo meccanismo della curiosità, ma anche del sentire che di quella persona ci si può fidare o meglio che con lei “ci si può abbandonare”!
Ma anche che con quella persona abbiamo molti codici in comune, che c’è una condivisione della mente e del pensiero.
In amore non ci sono regole. L’amore è una esperienza di profonda trasformazione, di unione degli opposti. Amare vuol dire arrendersi. Come ci dice U. Galimberti, permettere alla nostra pazzia, all’irrazionale, al dionisiaco, di emergere. L’altro a cui ci si affida, ci aiuta a farci riemergere dalla follia ed a regolarizzare il rapporto in un amore stabile.
L’affidarsi fa si che noi otteniamo delle risposte che ci aiutano a crescere. L’investimento affettivo libidico ci ritorna rafforzando la fiducia in noi stessi e la capacità di amare.
Nella realtà, per molte persone è difficile lasciarsi amare, abbandonarsi.
Io credo però che non esista altra strada. Spesso vedo le persone fuggire davanti all’amore per paura della sofferenza. Certo, a volte le storie d’amore finiscono. Ma spesso non permettiamo che ciò accada per la paura di lasciarsi andare, di perdere il controllo sulla propria vita. Ma se abbiamo questa paura, vuol dire che stiamo cercando di controllare la realtà perché ci si sente insicuri, perché ancora non abbiamo capito ciò che davvero ciascuno di noi vuole essere.
Tirando le file la differenza di età non è significativa, se c’è un vero amore e un grande affetto e la voglia di condividere, di aiutarsi, di percorrere insieme la strada della vita.
Chi ha detto che tutto deve essere semplice e facile!
“Per aspera ad astra”.
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Paolo Cardoso
Spesso mi trovo a rispondere, come psicoterapeuta a questa domanda e un po’ mi fa sorridere. Perché? Perché è un falso problema.
“El amor es magia”, come dicono gli argentini. Ovvero non è spiegabile con la ragione, l’amore non “si capisce”, lo “si sente”!
Come dice la mia amica psichiatra Donatella Marazziti “l’amore è”. Allora perché scatta anche la dove c’è una grande differenza di età? Forse perché si ricerca una figura genitoriale, forse perché dà sicurezza, forse perché ci aiuta, bla bla bla…
In fondo anche nella Bibbia ci sono moltissime coppie felici con grande differenza di età!
Anche quando noi capissimo quali nostre carenze strutturali e/o psicologiche influissero sull’innamoramento, non avremmo risposto alla domanda.
Io credo che l’amore scatta dietro al potentissimo meccanismo della curiosità, ma anche del sentire che di quella persona ci si può fidare o meglio che con lei “ci si può abbandonare”!
Ma anche che con quella persona abbiamo molti codici in comune, che c’è una condivisione della mente e del pensiero.
In amore non ci sono regole. L’amore è una esperienza di profonda trasformazione, di unione degli opposti. Amare vuol dire arrendersi. Come ci dice U. Galimberti, permettere alla nostra pazzia, all’irrazionale, al dionisiaco, di emergere. L’altro a cui ci si affida, ci aiuta a farci riemergere dalla follia ed a regolarizzare il rapporto in un amore stabile.
L’affidarsi fa si che noi otteniamo delle risposte che ci aiutano a crescere. L’investimento affettivo libidico ci ritorna rafforzando la fiducia in noi stessi e la capacità di amare.
Nella realtà, per molte persone è difficile lasciarsi amare, abbandonarsi.
Io credo però che non esista altra strada. Spesso vedo le persone fuggire davanti all’amore per paura della sofferenza. Certo, a volte le storie d’amore finiscono. Ma spesso non permettiamo che ciò accada per la paura di lasciarsi andare, di perdere il controllo sulla propria vita. Ma se abbiamo questa paura, vuol dire che stiamo cercando di controllare la realtà perché ci si sente insicuri, perché ancora non abbiamo capito ciò che davvero ciascuno di noi vuole essere.
Tirando le file la differenza di età non è significativa, se c’è un vero amore e un grande affetto e la voglia di condividere, di aiutarsi, di percorrere insieme la strada della vita.
Chi ha detto che tutto deve essere semplice e facile!
“Per aspera ad astra”.
This entry was posted in Articoli, Risorse on 09/03/2016.
I robot, l’Intelligenza artificiale e il nostro futuro
Articolo di Paolo Cardoso in collaborazione con Federica Bariatti
Quando pensiamo ai robot ci vengono in mente quelli dei film di fantascienza, oppure i robot aspirapolvere o tagliaerba o i robot delle grandi fabbriche. Se siamo un po’ più esperti della materia pensiamo anche a quelli usati nelle sale operatorie.
In realtà si stanno sviluppando tantissimi tipi di robot che usano l’intelligenza artificiale e che presto saranno in grado di pensare anche in modo autonomo.
Lo sviluppo dei computer è talmente veloce, che la legge di Moore (La potenza dei processori raddoppia o il prezzo si dimezza ogni 18 mesi - 1965) è ormai superata.
Infatti i computer quantici saranno dotati di microprocessori basati su tecnologie totalmente diverse dalle odierne che avranno una capacità di calcolo e di memoria impensabili sino ad oggi.
E’ interessante notare che le moderne scoperte delle neuroscienze sul funzionamento del nostro cervello, ipotizzano sempre più un’organizzazione quantica della memoria.Qua il discorso si farebbe lungo e per chi è curioso può approfondire andando a leggersi nelle rete i più recenti articoli.
Oggi noi dobbiamo chiederci quali saranno le implicazioni future di tutto ciò, a livello psicologico, per le persone “normali”. Proviamo a fare qualche ipotesi, anzi a porci qualche domanda:
⦁ Nell’interazione uomo/robot, quali funzioni cognitive e affettive verranno modificate?
⦁ Quali saranno gli impatti sull’ambiente sociale, sull’ecosistema, sugli utenti e sugli operatori di queste nuove tecnologie?
⦁ Vi sono dei pregiudizi verso l’uso dei robot e/o dell’I.A.?
Questi sono quesiti che sicuramente meritano degli approfondimenti.
Tra l’altro, studi recenti hanno dimostrato che gli operatori delle nuove tecnologie sono soggetti allo stress (chiamato technostress) in misura maggiore di chi non ne fa uso.
Un lato positivo di queste nuove tecnologie è che i robot e l’A.I. potranno trovare un campo di utilizzo nell’aiuto alle persone anziane ed ai disabili. Già come supporto riabilitativo, le macchine robotizzate permettono degli interventi riabilitativi di grande efficacia.
Poi, attraverso i sistemi di A.I. in grado di realizzare una particolare comunicazione con i soggetti disabili, si possono ottenere risultati significativi. La loro capacità di interpretare i segnali emotivi e di effettuare una restituzione attraverso appropriate forme linguistiche permette una continua interazione con persone anziane o disabili affetti da problemi di linguaggio o di percezione dell’ambiente.
I robot riescono sempre più a muoversi in ambienti in modo autonomo ed intelligente e possono essere di importante aiuto agli anziani. Possono ad esempio, essere di stimolo nelle case di riposo attraverso giochi e un interazione continua con gli ospiti.
Si stanno sperimentando dei piccoli robot che operano con i bambini autistici attraverso giochi di imitazione corporea. I bambini imparano progressivamente a gestire loro i vari giochi e a migliorare la loro capacità di interpretare e comprendere i comportamenti emotivi degli altri, vedendo le espressioni visive del robot e le sue interazioni verbali.
Vi è però tutta una serie di rischi legati a queste tecnologie ovvero che i grandi network prendano, piano piano, il controllo della nostra vita privata e delle nostre informazioni, che la rete ed i grandi motori di ricerca come ad esempio Google, finiscono per ottenere, attraverso il monitoraggio dell’uso che ciascuno di noi fa di Internet.
Umberto Galimberti ha sottolineato, in un suo articolo, che vi è il rischio che l’uomo passi da avere un’intelligenza convergente ad una divergente.
L’intelligenza divergente è quella che trova la soluzione ribaltando i termini del problema, come ad esempio fece Copernico quando ipotizzò che fosse la terra a girare intorno al Sole e non viceversa.
L’intelligenza convergente trova la soluzione a partire da come il problema è stato impostato (nell’informatica il programma).
Il Potere, quale che sia, controlla meglio l’intelligenza convergente, che porta ad uniformarsi ed al “pensiero unico”.
Qui sorge un ragionevole dubbio: il “Sistema economico politico” condivide i nostri obiettivi ed il nostro benessere?
Nella risposta è racchiuso il nostro futuro.
Cerchiamo ora di fare un’analisi più specifica.
Creare, reperire e organizzare l’informazione ha sicuramente un costo. Ma anche spostarla!
Oggi sistemi automatizzati ci inondano di mail, ma pochi pensano all’impatto che questo ha sulla società.
Non c’è solo una perdita di tempo (che è un costo) nel capire se una mail va letta oppure no, ma anche una continua perdita di concentrazione e un notevole impatto sull’eco-sistema.
Infatti quando premiamo il tasto “invia”, senza rendercene conto, consumiamo energia elettrica, così come i server che la rilanciano e come la consuma il destinatario quando la apre. Sembra poca cosa ma pensate ai miliardi di mail che girano ogni giorno.
Anche i robot industriali, nonostante possano lavorare per lunghissimi periodi senza soste, consumano quantità altissime di energia. Il fatto che siano in grado di sostituire molti operai, genererà un ulteriore serie di problemi: alti consumi energetici e persone che perderanno il lavoro e dovranno inventarsene un altro, ammesso che ciò sia possibile.
Infatti, a perdere il lavoro per primi, saranno gli operai o gli artigiani generici.
Già oggi le stampanti 3D, ad esempio, hanno la capacità di creare manufatti
perfetti ed addirittura case!.
Ad oggi nessuno può fare previsioni sensate su quale sarà l’impatto economico della diffusione delle macchine intelligenti.
Forse, da parte dell’industria, c’è ancora una sorta di remora, nel creare fabbriche completamente automatizzate, cioè prive o quasi prive della presenza umana.
Ridurre la mano d’opera nelle fabbriche, nel settore delle spedizioni, nell’agricoltura ecc. creerà una rivoluzione economico-sociale enorme e dovremmo chiederci se la nostra crescita economica sarà aiutata o fermata dall’I.A. applicata alla robotica e all’informatica.
Resteranno i lavori che si basano sui rapporti interpersonali o che richiederanno una spiccata capacità di giudizio
Il mercato, attualmente, si preoccupa di creare nuove occasioni di consumo.
La produzione di beni non riguarda più solo quella di beni essenziali ed utili ad una migliore qualità di vita, ma si rivolge sempre di più verso attività voluttuarie e/o di gioco. Basti pensare ai videogiochi, alla chat, ai social network, i cui impatti sulla società sono oggetto di studi controversi.
Keynes diceva che “la scoperta dei mezzi per ridurre l’uso di mano d’opera, procede più velocemente della scoperta di nuovi usi della mano d’opera”. Questo oggi si può applicare alle nuove tecnologie.
Occorre ricordare alcuni principi economici fondamentali per uno sviluppo equilibrato:
⦁ I processi economici si dovrebbero basarsi sui reali bisogni individuali.
⦁ Finora si credeva che le nuove invenzioni avrebbero fatto sparire lavori ma avrebbero creati altri. Questo sarà ancora vero tra 10/20 anni?
⦁ Ricordiamoci che a perdere il lavoro sono le Persone, mai le economie!
Secondo Frey e Osborn nel giro di 20 anni il 47% dei posti di lavoro sarà a rischio.
Occorre sviluppare da subito dei nuovi modelli sia di proiezione dell’impatto della robotica e della I.A. sui mercati, facendo un’accurata valutazione della riduzione dei costi dei robot e dei software di I.A. (Legge di Moore) e dei possibili nuovi modelli di società.
Forse si andrà verso un’economia di scambio, come timidamente già si vede. Ad esempio io offrirò il mio tempo per verniciarti la casa e tu mi ospiterai per una settimana o mi riparerai la lavatrice.
Sicuramente occorrerà usare l’I.A. per elaborare questi modelli di proiezione del mutamento del mercato economico ed anche finanziario e dei sistemi sociali.
Ma allora i robot e l’A.I., come sostiene l’N.S.A. americana sono al primo posto nei pericoli per l’umanità? I robot ci ruberanno tutti i posti di lavoro? No! Ci ruberanno il lavoro solo se noi glielo permetteremo.
Ci hanno illuso che i nostri bisogni sono illimitati e che noi possiamo soddisfarli tutti.
Io credo, come sostiene John Lanchester, che l’uomo deve imparare a distinguere tra i bisogni soddisfatti dagli esseri umani e quelli soddisfatti dalle macchine.
Forse dovremmo rivedere i modelli economici, le forme di proprietà. Basti pensare a come si sta diffondendo lo sharing per le automobili.
Dobbiamo mirare ad un mondo dove gli esseri umani saranno impegnati in attività gratificanti ed anche remunerative.
Quello che sta accadendo è che tutti parlano del pericolo, ma pochissimi delle possibilità di trasformazione della nostra società in qualcosa di diverso da quella che è ora. Dove la finanza e l’ipercapitalismo si ridimensionino in favore di un’economia più ecosostenibile e più egualitaria.
Gli uomini non sono assolutamente tutti uguali, ma una società giusta deve offrire a tutti le stesse possibilità di partenza. Poi ognuno si realizzerà secondo le proprie potenzialità ed aspirazioni.
Forse un giorno i robot, come ha scritto in un bellissimo racconto di fantascienza Philip K. Dick sogneranno le pecore elettriche. Per ora sta a noi sognare e realizzare un mondo integrato tra esseri umani, robot, e A.I.
This entry was posted in Articoli, Risorse on 08/03/2016.
L’incomunicabilità ai tempi dei social
Definizione della Treccani:
“Incomunicabilità Incapacità o impossibilità di comunicare con altri, o più spesso con tutti gli altri, di stabilire un rapporto vivo e profondo di conoscenza con sé stessi e con gli altri, da cui deriva un senso di solitudine e di isolamento: senso e concezione della vita che, fatti propri da molta letteratura del Romanticismo e, più ancora, del primo Novecento (culminante in Italia nell’opera di L. Pirandello), confluiscono nel dopoguerra nel più ampio motivo dell’alienazione esistenziale, trovando anche espressione artistica nel cinema.”
Nella mia professione di psicoterapeuta mi trovo sempre più davanti a clamorosi casi di incomunicabilità tra persone.
Non credo che ciò dipenda solo da ciò che è stato tante volte detto ovvero: troppo lavoro, la televisione, i social che ci abituano a scrivere in modo sempre più povero, gli smartphone e chi più ne ha e più ne metta.
Io mi trovo davanti a qualcosa di diverso, ovvero più che dal non parlare l’incomunicabilità è dovuto a non ascoltare.
Erich Fromm scrisse un bellissimo libro, non troppo conosciuto: “ L’arte di ascoltare” (Ed. Mondadori). Oggi noi abbiamo molti impedimenti a quello che si chiama l’ascolto attivo. Ascoltare non è “sentire”. Ascoltare si fa con la mente, sentire con gli orecchi.
Leggere l’articolo completo su Mani di Strega.
This entry was posted in Articoli, Risorse on 24/10/2014.
Definizione della Treccani:
“Incomunicabilità Incapacità o impossibilità di comunicare con altri, o più spesso con tutti gli altri, di stabilire un rapporto vivo e profondo di conoscenza con sé stessi e con gli altri, da cui deriva un senso di solitudine e di isolamento: senso e concezione della vita che, fatti propri da molta letteratura del Romanticismo e, più ancora, del primo Novecento (culminante in Italia nell’opera di L. Pirandello), confluiscono nel dopoguerra nel più ampio motivo dell’alienazione esistenziale, trovando anche espressione artistica nel cinema.”
Nella mia professione di psicoterapeuta mi trovo sempre più davanti a clamorosi casi di incomunicabilità tra persone.
Non credo che ciò dipenda solo da ciò che è stato tante volte detto ovvero: troppo lavoro, la televisione, i social che ci abituano a scrivere in modo sempre più povero, gli smartphone e chi più ne ha e più ne metta.
Io mi trovo davanti a qualcosa di diverso, ovvero più che dal non parlare l’incomunicabilità è dovuto a non ascoltare.
Erich Fromm scrisse un bellissimo libro, non troppo conosciuto: “ L’arte di ascoltare” (Ed. Mondadori). Oggi noi abbiamo molti impedimenti a quello che si chiama l’ascolto attivo. Ascoltare non è “sentire”. Ascoltare si fa con la mente, sentire con gli orecchi.
Leggere l’articolo completo su Mani di Strega.
This entry was posted in Articoli, Risorse on 24/10/2014.
Come motivare e valutare i propri collaboratori
In questo periodo di scarsissime risorse economiche il problema della motivazione dei propri collaboratori diviene drammatico, perché sin ora si è ricorso, quasi sempre solo agli incentivi economici. I manager hanno continuato, in molti casi, semplicemente ad applicare il sistema del bastone e della carota.
Bisogna rendersi conto che il problema non si può affrontare solo in modo “lineare” ma bisogna avere una visione più “circolare”.
Sin ora si definivano gli obiettivi aziendali, si facevano le verifiche, si controllavano i risultati ottenuti e poi si distribuivamo i premi economici o di altra natura (viaggi, buoni acquisti ecc.). Se i risultati non venivano raggiunti si ricorreva al…bastone.
Questo sistema non può essere più applicato sia per scarsità di risorse economiche, sia perché spesso dà risultati modestissimi.
In realtà funziona solo dove vi sono lavori “meccanicistici” (quanti pezzi produci? Magari sempre lo stesso).
Partiamo dal presupposto che i motivatori possono essere o esterni (bastone e carota) o interni.
Nei lavori dove si usa molto la parte destra del cervello, dove è richiesta creatività, i motivatori esterni finiscono per peggiorare le prestazioni. Uno studio del MIT ha verificato che maggiori sono gli incentivi solo economici e, in questi tipi di lavori, le prestazioni si abbassano di livello.
Occorre un approccio completamente diverso e fare maggiore ricorso ai motivatori interni ovvero “si lavora meglio se ciò che facciamo ha un senso, perché é interessante, perché piace e fa parte di qualcosa di interessante”.
Vi sono tre concetti fondamentali da tener presente per percorrere questa strada diversa:
Basti pensare a Microsoft che anni fa investì moltissime risorse per creare Encarta, la grande enciclopedia, che è rimasta al palo al contrario di Wikipedia, che ormai tutti consultiamo è che non è costata un soldo.
Come si può attuare tutto questo in modo graduale?
Intanto condividendo con i collaboratori non solo gli obiettivi della Società, ma la Cultura della Società e i sogni che il management ha.
Si dice che il manager realizza i sogni del C.d.A. In realtà solo se tutti hanno lo stesso sogno, si riuscirà a realizzarlo.
Poi occorre condividere i progetti e trovare degli indicatori di risultato, dove tutti coloro che sono all’interno del progetto possano esprimere la propria opinione e condividere le proprie aspirazioni. Poter indicare quali sono gli aiuti o gli interventi di cui c’è bisogno per realizzarli.
Lasciare ai collaboratori la maggiore autonomia possibile e fare verifiche non giudicanti ma collaborative per superare le eventuali difficoltà.
Tutto ciò riduce enormemente lo stress aziendale. Non stanchiamoci di ripetere che lo stress è nelle idee non nelle persone.
Ma allora i premi? I premi stanno nella migliore qualità di vita. Elasticità negli orari, giorni di ferie in più se ad es. realizzi un progetto prima del tempo previsto. Corsi di formazione che aumentano la qualità professionale ecc.
Il concetto fondamentale è che i risultati stanno nella motivazione interna e non nei premi o nelle punizioni.
Bisogna far sentire ai propri collaboratori che il centro e la ricchezza dell’Azienda sono la “persona” e non le attività. Che l’Azienda, per citare il Prof. Bruscaglioni è fatta di tante “persona” e non persone.
Solo se si realizza tutto ciò si riesce davvero a motivare i lavoratori ed a raggiungere gli obbiettivi che l’Azienda si pone.
Come si realizza l’intervento?
Si analizzano tutte le singole procedure di lavoro. Poi si ascoltano i lavoratori impegnati nelle procedure e si rilevano i problemi emersi.
Si somministra ai dirigenti il questionario BIP (Business–focused inventory of personality) per analizzare le potenzialità e le risorse della persona.
L’Azienda definisce gli obiettivi ed i tempi di realizzazione.
Si crea il questionario di valutazione dedicato all’Azienda.
Si realizza un workshop con i dirigenti (eventualmente anche con i quadri) per prepararli all’utilizzo del questionario e spiegargli come impiegare i risultati che otterranno.
Alla fine dell’anno precedente all’esercizio relativo agli obiettivi fissati saranno tenuti degli incontri a piramide (i dirigenti con i quadri, i quadri con i lavoratori dei singoli settori ecc.).
In tale sede potranno emergere gli eventuali interventi di coaching, formativi necessari.
Dopo sei mesi verrà effettuata una valutazione intermedia così da riallineare i risultati con gli obiettivi.
All’inizio dell’anno successivo sarà effettuata la valutazione finale.
This entry was posted in Articoli, Risorse on 15/10/2014.
In questo periodo di scarsissime risorse economiche il problema della motivazione dei propri collaboratori diviene drammatico, perché sin ora si è ricorso, quasi sempre solo agli incentivi economici. I manager hanno continuato, in molti casi, semplicemente ad applicare il sistema del bastone e della carota.
Bisogna rendersi conto che il problema non si può affrontare solo in modo “lineare” ma bisogna avere una visione più “circolare”.
Sin ora si definivano gli obiettivi aziendali, si facevano le verifiche, si controllavano i risultati ottenuti e poi si distribuivamo i premi economici o di altra natura (viaggi, buoni acquisti ecc.). Se i risultati non venivano raggiunti si ricorreva al…bastone.
Questo sistema non può essere più applicato sia per scarsità di risorse economiche, sia perché spesso dà risultati modestissimi.
In realtà funziona solo dove vi sono lavori “meccanicistici” (quanti pezzi produci? Magari sempre lo stesso).
Partiamo dal presupposto che i motivatori possono essere o esterni (bastone e carota) o interni.
Nei lavori dove si usa molto la parte destra del cervello, dove è richiesta creatività, i motivatori esterni finiscono per peggiorare le prestazioni. Uno studio del MIT ha verificato che maggiori sono gli incentivi solo economici e, in questi tipi di lavori, le prestazioni si abbassano di livello.
Occorre un approccio completamente diverso e fare maggiore ricorso ai motivatori interni ovvero “si lavora meglio se ciò che facciamo ha un senso, perché é interessante, perché piace e fa parte di qualcosa di interessante”.
Vi sono tre concetti fondamentali da tener presente per percorrere questa strada diversa:
- AUTONOMIA: l’esigenza di dirigere la nostra vita
- PADRONANZA: il desiderio di migliorarci costantemente in qualcosa che conta
- SCOPO: la pulsione a proseguire ciò che facciamo perché è qualcosa di più grande di noi.
Basti pensare a Microsoft che anni fa investì moltissime risorse per creare Encarta, la grande enciclopedia, che è rimasta al palo al contrario di Wikipedia, che ormai tutti consultiamo è che non è costata un soldo.
Come si può attuare tutto questo in modo graduale?
Intanto condividendo con i collaboratori non solo gli obiettivi della Società, ma la Cultura della Società e i sogni che il management ha.
Si dice che il manager realizza i sogni del C.d.A. In realtà solo se tutti hanno lo stesso sogno, si riuscirà a realizzarlo.
Poi occorre condividere i progetti e trovare degli indicatori di risultato, dove tutti coloro che sono all’interno del progetto possano esprimere la propria opinione e condividere le proprie aspirazioni. Poter indicare quali sono gli aiuti o gli interventi di cui c’è bisogno per realizzarli.
Lasciare ai collaboratori la maggiore autonomia possibile e fare verifiche non giudicanti ma collaborative per superare le eventuali difficoltà.
Tutto ciò riduce enormemente lo stress aziendale. Non stanchiamoci di ripetere che lo stress è nelle idee non nelle persone.
Ma allora i premi? I premi stanno nella migliore qualità di vita. Elasticità negli orari, giorni di ferie in più se ad es. realizzi un progetto prima del tempo previsto. Corsi di formazione che aumentano la qualità professionale ecc.
Il concetto fondamentale è che i risultati stanno nella motivazione interna e non nei premi o nelle punizioni.
Bisogna far sentire ai propri collaboratori che il centro e la ricchezza dell’Azienda sono la “persona” e non le attività. Che l’Azienda, per citare il Prof. Bruscaglioni è fatta di tante “persona” e non persone.
Solo se si realizza tutto ciò si riesce davvero a motivare i lavoratori ed a raggiungere gli obbiettivi che l’Azienda si pone.
Come si realizza l’intervento?
Si analizzano tutte le singole procedure di lavoro. Poi si ascoltano i lavoratori impegnati nelle procedure e si rilevano i problemi emersi.
Si somministra ai dirigenti il questionario BIP (Business–focused inventory of personality) per analizzare le potenzialità e le risorse della persona.
L’Azienda definisce gli obiettivi ed i tempi di realizzazione.
Si crea il questionario di valutazione dedicato all’Azienda.
Si realizza un workshop con i dirigenti (eventualmente anche con i quadri) per prepararli all’utilizzo del questionario e spiegargli come impiegare i risultati che otterranno.
Alla fine dell’anno precedente all’esercizio relativo agli obiettivi fissati saranno tenuti degli incontri a piramide (i dirigenti con i quadri, i quadri con i lavoratori dei singoli settori ecc.).
In tale sede potranno emergere gli eventuali interventi di coaching, formativi necessari.
Dopo sei mesi verrà effettuata una valutazione intermedia così da riallineare i risultati con gli obiettivi.
All’inizio dell’anno successivo sarà effettuata la valutazione finale.
This entry was posted in Articoli, Risorse on 15/10/2014.
Sulla paura di amare
“È inutile sostenere che sentire l’amore come un atto di dare dipende dal carattere dell’individuo. Al contrario, presuppone la conquista di una posizione prevalentemente produttiva; in quest’orientamento l’individuo ha vinto l’indipendenza, l’onnipotenza narcisistica, il desiderio di sfruttare gli altri o di tesaurizzare, e ha tratto la fede nei propri poteri umani, il coraggio di fare assegnamento nel conseguimento delle proprie mete. Nella misura in cui queste qualità mancano, egli ha paura di dare se stesso, e quindi di amare. “
Erich Fromm L’arte di amare
Perché sempre più persone hanno paura di amare e di essere amati? Vedo sempre più pazienti, amici che avvertono che sta nascendo un sentimento di amore verso un’altra persona e ne sono impauriti. Esitano ad abbandonarsi all’impeto di una pulsione così intensa e bella.
Paura poi dell’abbandono, di perdere, paura di mettersi in gioco? Di non essere all’altezza? Di perdere la propria libertà, di dover rinunciare a qualcosa di se stessi? L’elenco potrebbe essere lungo! In un libro da me curato anni fa ho descritto quella che per Freud ed altri è la genesi psicologica di questo problema. “Tutto ciò ci rimanda ovviamente al nostro rapporto con la “mamma”, alle nostre ferite inconsce più profonde, alle falle nella nostra struttura psicologica che nascono nella mancanza, o supposta tale dal nostro inconscio, del rapporto affettivo con la “mamma”. O ancor peggio affondano le radici nell’abbandono o vissuto tale della madre verso il figlio. E dopo, nel crescere, nelle incomprensioni, nei conflitti non risolti, nelle disubbidienze non agite nella mancanza di complicità con le figure genitoriali”…
Articolo completo apparso su ManidiStrega.it
This entry was posted in Articoli, Risorse on 15/10/2014.
“È inutile sostenere che sentire l’amore come un atto di dare dipende dal carattere dell’individuo. Al contrario, presuppone la conquista di una posizione prevalentemente produttiva; in quest’orientamento l’individuo ha vinto l’indipendenza, l’onnipotenza narcisistica, il desiderio di sfruttare gli altri o di tesaurizzare, e ha tratto la fede nei propri poteri umani, il coraggio di fare assegnamento nel conseguimento delle proprie mete. Nella misura in cui queste qualità mancano, egli ha paura di dare se stesso, e quindi di amare. “
Erich Fromm L’arte di amare
Perché sempre più persone hanno paura di amare e di essere amati? Vedo sempre più pazienti, amici che avvertono che sta nascendo un sentimento di amore verso un’altra persona e ne sono impauriti. Esitano ad abbandonarsi all’impeto di una pulsione così intensa e bella.
Paura poi dell’abbandono, di perdere, paura di mettersi in gioco? Di non essere all’altezza? Di perdere la propria libertà, di dover rinunciare a qualcosa di se stessi? L’elenco potrebbe essere lungo! In un libro da me curato anni fa ho descritto quella che per Freud ed altri è la genesi psicologica di questo problema. “Tutto ciò ci rimanda ovviamente al nostro rapporto con la “mamma”, alle nostre ferite inconsce più profonde, alle falle nella nostra struttura psicologica che nascono nella mancanza, o supposta tale dal nostro inconscio, del rapporto affettivo con la “mamma”. O ancor peggio affondano le radici nell’abbandono o vissuto tale della madre verso il figlio. E dopo, nel crescere, nelle incomprensioni, nei conflitti non risolti, nelle disubbidienze non agite nella mancanza di complicità con le figure genitoriali”…
Articolo completo apparso su ManidiStrega.it
This entry was posted in Articoli, Risorse on 15/10/2014.
I lavoratori over 50 posso essere una risorsa?
di Paolo Cardoso – pubblicato sul NUMERO 8 – MAGGIO 2013 di Qi, il magazine online di Hogrefe Editore.
Questa nostra epoca vede allungarsi in modo notevole non solo l’aspettativa di vita, ma l’età in cui le persone possono mantenersi in buona salute. Questo fenomeno è stato definito dalla Stanford University come “longevity”.
Stiamo assistendo ad un progressivo spostamento dell’età pensionabile.
I giovani hanno sempre più difficoltà ad accedere al mondo del lavoro e il loro futuro appare incerto.
La grande richiesta di lavoro fa sì che le aziende possono utilizzare tutto ciò come forte arma di pressione sui dipendenti, che si sentono sempre più sotto pressione. Ciò li spinge ad essere gelosi delle loro conoscenze e non molto disponibili alla collaborazione, e alla fine vedono i colleghi anziani come un blocco alla loro possibilità di carriera.
Negli Stati Uniti si assiste ad un’inversione di tendenza, rispetto agli anni ’80-90, dove si tendeva ad assumere manager giovani ed a mandar via gli over cinquanta. Oggi, non solo negli USA, si è creata una fascia sociale, definita dei “babyboomer”, che non accetta di mettersi a sedere su di una panchina, ma che cerca di inventarsi nuove attività o di rientrare nel mondo del lavoro. Anche il peggioramento delle condizioni economiche costringe moltissimi pensionati a cercarsi altre forme di guadagno per mantenere una vita dignitosa.
Ma tutto ciò ha anche un aspetto psicologico molto positivo perché, come sosteneva Cesare Musatti, l’unico sistema per non invecchiare è “quello di fare progetti”, di tornare ad investire anche emotivamente su se stessi.
E allora ecco che le persone non più giovani tornano al lavoro. È un profondo cambiamento sociale perché, se saremo in grado di sfruttarne le potenzialità creative, la professionalità e le esperienze acquisite, queste porteranno a grandi cambiamenti organizzativi. Potremmo chiamare questo periodo della nostra vita come quello della “seconda adolescenza” e non della terza età. Quella ormai è da considerarsi over 80 anni.
Potremmo ipotizzare un cambiamento dell’organizzazione aziendale che tenga conto di questi fattori che, combinati in modo giusto, porterebbero a sensibili moglioramenti:
di Paolo Cardoso – pubblicato sul NUMERO 8 – MAGGIO 2013 di Qi, il magazine online di Hogrefe Editore.
Questa nostra epoca vede allungarsi in modo notevole non solo l’aspettativa di vita, ma l’età in cui le persone possono mantenersi in buona salute. Questo fenomeno è stato definito dalla Stanford University come “longevity”.
Stiamo assistendo ad un progressivo spostamento dell’età pensionabile.
I giovani hanno sempre più difficoltà ad accedere al mondo del lavoro e il loro futuro appare incerto.
La grande richiesta di lavoro fa sì che le aziende possono utilizzare tutto ciò come forte arma di pressione sui dipendenti, che si sentono sempre più sotto pressione. Ciò li spinge ad essere gelosi delle loro conoscenze e non molto disponibili alla collaborazione, e alla fine vedono i colleghi anziani come un blocco alla loro possibilità di carriera.
Negli Stati Uniti si assiste ad un’inversione di tendenza, rispetto agli anni ’80-90, dove si tendeva ad assumere manager giovani ed a mandar via gli over cinquanta. Oggi, non solo negli USA, si è creata una fascia sociale, definita dei “babyboomer”, che non accetta di mettersi a sedere su di una panchina, ma che cerca di inventarsi nuove attività o di rientrare nel mondo del lavoro. Anche il peggioramento delle condizioni economiche costringe moltissimi pensionati a cercarsi altre forme di guadagno per mantenere una vita dignitosa.
Ma tutto ciò ha anche un aspetto psicologico molto positivo perché, come sosteneva Cesare Musatti, l’unico sistema per non invecchiare è “quello di fare progetti”, di tornare ad investire anche emotivamente su se stessi.
E allora ecco che le persone non più giovani tornano al lavoro. È un profondo cambiamento sociale perché, se saremo in grado di sfruttarne le potenzialità creative, la professionalità e le esperienze acquisite, queste porteranno a grandi cambiamenti organizzativi. Potremmo chiamare questo periodo della nostra vita come quello della “seconda adolescenza” e non della terza età. Quella ormai è da considerarsi over 80 anni.
Potremmo ipotizzare un cambiamento dell’organizzazione aziendale che tenga conto di questi fattori che, combinati in modo giusto, porterebbero a sensibili moglioramenti:
La funzione dei babyboomer diverrebbe allora quella di trasmettere ai giovani le proprie conoscenze ed esperienze attraverso la formazione, la consulenza, l’addestramento. Ma questo non basta. Occorre anche una formazione permanete per i più anziani, per l’uso delle nuove tecnologie. Non è facile, sul lavoro, cambiare in continuazione le procedure di lavoro, usare i nuovi network, ecc. Ha scritto Alvin Toffler: “Nel futuro definiremo analfabeti coloro che non sono capaci di re-imparare del tutto la loro vita”. Bene quel futuro è già qui.
Tutto ciò ridurrebbe drasticamente i contrasti ed conflitti interni, migliorando invece la comunicazione. Per far ciò occorrerà che i nostri governanti introducano nuovi strumenti di incentivazione e defiscalizzazione.
Soprattutto occorrerà che chi ha responsabilità di gestione delle aziende integri quanto abbiamo detto in una nuova vision e cultura dell’azienda. Chi riuscirà ad attuarla ne acquisterà molto in autorevolezza e diverrà un vero aggregatore di risorse.
This entry was posted in Articoli and tagged lavoratori, over 50 on 04/06/2013.
Tutto ciò ridurrebbe drasticamente i contrasti ed conflitti interni, migliorando invece la comunicazione. Per far ciò occorrerà che i nostri governanti introducano nuovi strumenti di incentivazione e defiscalizzazione.
Soprattutto occorrerà che chi ha responsabilità di gestione delle aziende integri quanto abbiamo detto in una nuova vision e cultura dell’azienda. Chi riuscirà ad attuarla ne acquisterà molto in autorevolezza e diverrà un vero aggregatore di risorse.
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Le nuove dipendenze
di Dott. Paolo Cardoso (psicologo-psicoterapeuta); Dott.sa Chiara Malandrini (psicologa); Dott.sa Elisa Romolini (psicologa)
Pubblicato su Psicolab il 12/12/2011
File in versione PDF scaricabile qui.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito il concetto di dipendenza patologica come “quella condizione psichica e talvolta anche fisica, derivata dall’interazione fra un organismo vivente e una sostanza tossica, e caratterizzata da risposte comportamentali e da altre reazioni, che comportano sempre un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico allo scopo di provare i suoi effetti psicologici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione” (cit. in Pigatto, 2003).
Tale definizione, viene adottata anche dai maggiori testi di riferimento per la classificazione e la diagnosi dei disturbi mentali quali il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV-TR, APA, 2000) e il Manuale di Classificazione delle Sindromi dei disturbi Psichici e Comportamentali (ICD-X, OMS, 1994). Qui il concetto di dipendenza nel senso più stretto del termine, si riferisce unicamente all’uso e abuso di sostanze psicoattive.
Tuttavia oggi, ciò che viene definita dipendenza abbraccia una visione ben più ampia includendo al suo interno anche sintomatologie provocate dalla messa in atto incontrollata di attività socialmente accettate, come l’uso di internet, il gioco d’azzardo o lo shopping, che non prevedono il consumo di sostanze.
Sono state definite come “dipendenze sociali” evidenziando la loro collocazione al di fuori della dimensione trasgressiva dell’uso di droghe, ma trovando un loro spazio all’interno della vita quotidiana della persona. Proprio la legittimità e l’accettazione sociale di tali pratiche, rende labile il confine tra le quelle attività praticate a scopo ricreazionale e ciò che, invece, può considerarsi una vera e propria dipendenza.
Nell’ambito delle cosiddette nuove dipendenze (o dipendenze comportamentali), la persona manifesta un’incontrollata necessità di dover compiere una specifica attività (come ad es. scommettere o navigare in rete), per trovare immediata soddisfazione ad un bisogno, che talvolta assume l’accezione di una necessità quasi fisiologica di mettere in atto il comportamento come per il tossicodipendente lo è assumere la sostanza. Il parallelismo con le dipendenze da sostanze, risulta evidente tanto che è possibile individuarne alcuni fattori comuni:
Sebbene siano stati messi in atto da parte del mondo scientifico diversi tentativi di per una classificazione univoca di tali comportamenti patologici, ad oggi non sono stati trovati dei criteri diagnostici condivisi.
IL GIOCO D’AZZARDO:
Vengono classificati sotto la categoria dei giochi d’azzardo, tutte quelle pratiche ludiche che comportano l’utilizzo di denaro e il cui esito è affidato esclusivamente al caso.
Tali attività affondano le loro radici in tempi lontani, ma mentre un tempo venivano svolte solo in luoghi appositamente adibiti, come ad esempio nei casinò o le bische, oggi il gioco d’azzardo è diventato una consuetudine che la persona può trovare pressoché ovunque. Le tipologie di gioco sono molteplici , basti pensare alla vasta gamma di lotterie istantanee, alle slot machines o alle scommesse sportive; sono di largo consumo, legali e accessibili a tutti.
In diversi casi, come per l’Italia, sono in parte sotto il monopolio statale e rappresentano pertanto una fiorente economia che contribuisce all’introito di denaro nelle casse dello stato. Pertanto non solo è una pratica legalizzata, ma anche fortemente incentivata tanto che oggi, ad esempio si può avere la possibilità di essere pagati in “gratta e vinci” anche agli sportelli degli uffici postali.
In Italia sono circa 35 milioni gli scommettitori, ed è stato stimato che questa attività riguardi circa l’80% della popolazione adulta (Eurispes, 2009). Fortunatamente, per la maggior parte dei cittadini questo rappresenta un semplice passatempo, ma per quasi mezzo milione di italiani costituisce una vera e propria dipendenza. Tale tipologia di addiction presenta una maggiore diffusione nella popolazione maschile rispetto a quella femminile, anche se questa differenza fra i sessi tende a diminuire con l’aumentare dell’età passando da un rapporto di 9:1 a 3:1. Le donne con problemi legati al gambling, infatti, presentano un’età più avanzata rispetto agli uomini con la stessa patologia, ma il percorso che le porta verso la dipendenza è molto più veloce.
Già dagli anni ‘80 la problematica della dipendenza da gioco d’azzardo veniva riconosciuta dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) come una psicopatologia specifica, inserendola all’interno del DSM IV sotto la categoria dei disturbi del controllo degli impulsi. Tale dipendenza si trova spesso in comorbilità con altre patologie come i disturbi affettivi e le altre dipendenze. La caratteristica essenziale che questo tipo di dipendenza condivide con il disturbo del controllo degli impulsi riguarda l’incapacità di resistere all’impulso o a una motivazione a compiere un’azione che è pericolosa per se stesso o per gli altri (APA 1994). Oltre a questo aspetto, sia nel gioco patologico che nel disturbo compulsivo, possiamo riscontrare lo stesso crescente senso di tensione o allarme che si verifica prima di agire, ed il conseguente vissuto di agitazione che scaturisce nel momento in cui il comportamento viene esplicato. Nonostante la relativa risonanza di questa nuova dipendenza, chi ne soffre raramente cerca spontaneamente aiuto nelle strutture sociali che operano nel settore delle dipendenze, dato che il comportamento dello scommettitore viene giustificato dal lui stesso e da chi lo circonda (almeno fino a che il danno economico non diventa ingente) come un vizio o una debolezza innocua della persona. Sostanzialmente la differenza fra l’abitudine sociale del “tentare la fortuna” e gioco d’azzardo compulsivo dipende dalla frequenza, durata e intensità con cui il giocatore mette in atto la propria condotta e dalla gravità delle conseguenze che si ripercuotono in ambito psicologico,sociale,familiare e fisico.
Tuttavia in ambito clinico, si può parlare di gioco d’azzardo compulsivo quando vengono soddisfatti almeno 5 dei criteri clinici previsti nel DSM IV-TR:
Tuttavia, come è stato precedentemente citato, non tutti coloro che giocano d’azzardo possono essere considerati giocatori patologici, infatti esistono diversi livelli di gravità del gioco d’azzardo:
Il giocatore patologico è spinto prevalentemente da un pensiero di tipo magico. L’idea prevalente, è quella di essere in grado di controllare il gioco (sopravvalutando in questo modo le proprie possibilità di successo) grazie alle proprie abilità e alla fortuna che il giocatore si propizia attraverso vari “riti scaramantici” e feticci portafortuna.
Tale meccanismo, porta il giocatore ad investire sempre più denaro non considerando che ogni scommessa è indipendente dalla precedente; vive nella convinzione di poter accrescere le proprie possibilità di vincita scommettendo ancora, nel tentativo di recuperare il denaro perso. Il comportamento compulsivo verso la scommessa, è spesso associato anche a deficit in determinati compiti strutturati di problem solving; infatti, queste persone perseguono rigidamente il proprio comportamento disadattivo e nonostante i continui feedback che gli imporrebbero di smettere, non cambiano le proprie strategie di pensiero e azione. Si dimostra pertanto ottuso e cocciuto, inaffidabile e irresponsabile. Nonostante l’assenza di denaro da impiegare nel gioco, accumula debiti che non potrà saldare.
Questa difficoltà nel controllo dell’impulso a scommettere, porta l’individuo verso una spirale di comportamenti disadattavi mettendo in atto spesso una condotta mendace e pervasiva che dal gioco si allarga, fino ad investire progressivamente anche la sfera privata e lavorativa. Il circolo vizioso della dipendenza, viene in oltre mantenuto da una serie di rinforzi positivi prodotti dalla sensazione di esaltazione che il giocatore prova ogni volta che vince. La vincita è vissuta come riscatto dalle precedenti perdite e come riprova che il “metodo” utilizzato dallo scommettitore funziona. Questo atteggiamento, associato alla mancata percezione del problema come malattia ed all’erronea convinzione di poter smettere in qualsiasi momento, porta il giocatore che ha superato la soglia del gioco ricreazionale, a non percepire la propria condotta come un problema di dipendenza. Generalmente non vi è una percezione chiara del problema fino a quando la situazione finanziaria dell’individuo non è grave. Alla scoperta da parte dei familiari del problema, spesso la loro reazione oscilla tra emozioni contrastanti, dalla rabbia alla vergogna, dalla vendetta alla disperazione, all’impotenza. In questo modo, l’unica strategia di reazione che i familiari trovano, è quella di infantilizzare il giocatore, che viene trattato come un bambino bisognoso di cure e protezione.
Lo scommettitore, da parte sua, accetta tale atteggiamento il quale viene considerato come uno dei prezzi da pagare per la propria condotta.
Frequentemente il giocatore d’azzardo compulsivo può trovarsi in comorbilità con altre patologie e condotte devianti, come la dipendenza da alcol e sostanze, i disturbi dell’umore e d’ansia, oltre alla tendenza al suicidio. Questa propensione verso un atto così estremo, scaturisce soprattutto dalla situazione sia emotiva che economica in cui il giocatore patologico si trova, presentandosi spesso come l’unica alternativa possibile per sfuggire al suo problema.
I giocatori patologici, non smettono mai da soli, ma necessitano di interventi psicoterapici integrati, di assistenza sociale e legale. Gli interventi che hanno avuto una percentuale elevata di successi prevedono: una fase preparatoria di counseling familiare, dove la famiglia viene “istruita” attraverso simulazioni comportamentali a mettere in atto strategie di pressing psicologico per indurre il giocatore patologico a chiedere aiuto. Una valutazione clinica del paziente, dove viene effettuata una valutazione diagnostica e una verifica del grado di problematicità della condotta, nonché la presenza di altri disturbi comportamentali o neurologici che possono impedire la paziente di smettere da solo. In fine viene predisposto un progetto di intervento terapeutico o di gruppo (dove verranno coinvolti anche i familiari). Una volta che il giocatore patologico ha abbandonato la propria condotta disadattava, viene pianificata una terapia di mantenimento e prevenzione delle ricadute.
LA DIPENDENZA DA LAVORO:
Questo tipo particolare di dipendenza comportamentale, ha una storia abbastanza recente. Viene affrontata per la prima volta da Marilyn Machlowitz nel 1997 definendola workaholic a causa delle somiglianze fra i comportamenti messi in atto da queste persone e gli alcolisti.
Come gran parte delle nuove dipendenze, anche questa non ha ancora trovato una definizione univoca all’interno della classificazione ufficiale psichiatrica e psicologica.
Viene normalmente considerata work addiction, la compulsione lavorativa della persona con dedizione al lavoro superiore alle otto ore al giorno, spesso nel week-end e in altri spazi liberi.
I pensieri e le preoccupazioni di queste persone, sono progressivamente sempre più rivolte al lavoro, fino a creare confusione, dimenticanze e ottundimento del pensiero.
A livello psicologico, queste persone possono mostrare sbalzi d’umore, depressione, perfezionismo, ipercontrollo, ossesioni, paure, fobie, isolamento e disturbi psicosomatici.
A livello fisiologico possono manifestarsi alcuni sintomi caratteristici dello stress quali emicrania, scompensi cardiocircolatori, dolori muscolari, problemi dermatologici e disturbi gastro-intestinali.
Il comportamento tipico del work addicted porta l’individuo ad abbandonare progressivamente tutti gli interessi che non sono connessi alla sfera professionale. Il lavoro in questo modo viene vissuto piuttosto che come fonte di sostentamento personale, come uno stato d’animo che permette alla persona di evitare di provare emozioni, responsabilità e contatto con le altre persone. Il lavoro, per queste persone, diventa così l’unica maniera per dimostrare a se stessi e agli altri il proprio valore, diviene cioè il mezzo attraverso il quale si esprime e dipende, la propria autostima.
Anche per questo tipo di dipendenza, si possono riscontrare alcuni fattori comuni con le dipendenze da sostanze, come la tolleranza, ovvero la necessità di procedere nel lavoro sempre di più, per ottenere il medesimo precedente appagamento psico-fisico e l’astinenza cioè lo stato di sofferenza sempre più grave che viene a crearsi come conseguenza dell’impossibilità di lavorare.
La sostanziale differenza fra coloro che presentano una particolare dedizione nei confronti del proprio lavoro e quelli che invece presentano una vera e propria dipendenza, si rende evidente nel momento in cui il persona non è più in grado di mettere dei limiti all’attività lavorativa e non riesce più a trovare per se stesso un po’ di tempo libero. Il cammino che conduce l’individuo verso la dipendenza da lavoro attraversa tre fasi:
Il Workaholic quindi, potrebbe soffrire di un disturbo compulsivo che lo porta a mascherare una serie di stati emotivi e a manifestare un’incapacità di adattamento che si esprime con sentimenti di scarsa autostima, paura di perdere il controllo e difficoltà relazionali.
Per quanto concerne le possibili strategie di intervento su questa dipendenza, vengono individuate la psicoterapia individuale, la psicoterapia familiare e la partecipazione gruppi di self-help. Proprio quest’ultimo approccio ha riscontrato particolare successo per la cura del work addiction. È stato formato per la prima volta nel 1983 il self-help Workaholics Anonymous. Questo tipo particolare di intervento, consiste in un gruppo di auto-aiuto in cui i soggetti condividono la loro esperienza, nel tentativo di risolvere il loro comune problema e di aiutare gli altri a superare la dipendenza da lavoro.
I fattori terapeutici di questa tipologia di approccio consistono proprio nella condivisione dei propri problemi con altri individui che stanno superando il medesimo problema (o che lo hanno già superato) e che hanno la funzione di guidare i soggetti nel programma degli incontri. Il setting in cui si svolgono le attività del gruppo è accogliente e protetto ed è garantito l’anonimato; al suo interno vengono elaborati dei programmi di lavoro volti al progressivo abbandono della dipendenza.
LA DIPENDENZA AFFETTIVA:
La dipendenza affettiva (o love addiction) si manifesta tramite la continua ricerca d’amore e la tendenza a dipendere da una determinata persona o nell’impossibilità da parte del persona di fare a meno dell’ “ebbrezza amorosa”e dello stato di innamoramento. L’ebbrezza amorosa, consiste nella particolare sensazione di piacere, che il persona prova quando è con il partner. Questa gli è indispensabile per stare bene e non riesce ad ottenerla in modi diversi. Talvolta, il bisogno della presenza fisica dell’altro è talmente forte che la persona sente di esistere solo quando la persona, da cui è dipendente, gli è vicino.
Questa viene vista come l’unica fonte di gratificazione, le attività quotidiane vengono trascurate e assume come unico elemento rilevante della vita del persona il tempo trascorso insieme alla persona amata.
La persona con love addiction presenta dei vissuti emotivi incentrati sulla figura del partner, infatti, tendono a ignorare o sottovalutare la fatica connessa ai sacrifici che l’individuo deve fare per aiutare la persona amata. Temono terribilmente l’eventualità di venire abbandonanti dal partner e tendono ad assumersi la responsabilità e le colpe della vita di coppia. Presentano una bassa autostima e una profonda convinzione di non meritare la felicità. Tendono, inoltre, ad idealizzare il rapporto e il proprio compagno o compagna, costruendo il proprio futuro ideale attraverso improbabili fantasie.
Questo fenomeno, nel mondo Occidentale, risulta essere particolarmente diffuso soprattutto nella popolazione femminile di tutte le età e in particolar modo in seguito disturbi post traumatici a stress.
Gli interventi di maggior successo per coloro che soffrono di questo tipo di dipendenza, consistono nella psicoterapia individuale o di gruppo. Di solito, queste persone decidono di intraprende un percorso terapeutico quando iniziano a sentirsi sole e si rendono consapevoli di avere “qualcosa che non va”.
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di Dott. Paolo Cardoso (psicologo-psicoterapeuta); Dott.sa Chiara Malandrini (psicologa); Dott.sa Elisa Romolini (psicologa)
Pubblicato su Psicolab il 12/12/2011
File in versione PDF scaricabile qui.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito il concetto di dipendenza patologica come “quella condizione psichica e talvolta anche fisica, derivata dall’interazione fra un organismo vivente e una sostanza tossica, e caratterizzata da risposte comportamentali e da altre reazioni, che comportano sempre un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico allo scopo di provare i suoi effetti psicologici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione” (cit. in Pigatto, 2003).
Tale definizione, viene adottata anche dai maggiori testi di riferimento per la classificazione e la diagnosi dei disturbi mentali quali il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV-TR, APA, 2000) e il Manuale di Classificazione delle Sindromi dei disturbi Psichici e Comportamentali (ICD-X, OMS, 1994). Qui il concetto di dipendenza nel senso più stretto del termine, si riferisce unicamente all’uso e abuso di sostanze psicoattive.
Tuttavia oggi, ciò che viene definita dipendenza abbraccia una visione ben più ampia includendo al suo interno anche sintomatologie provocate dalla messa in atto incontrollata di attività socialmente accettate, come l’uso di internet, il gioco d’azzardo o lo shopping, che non prevedono il consumo di sostanze.
Sono state definite come “dipendenze sociali” evidenziando la loro collocazione al di fuori della dimensione trasgressiva dell’uso di droghe, ma trovando un loro spazio all’interno della vita quotidiana della persona. Proprio la legittimità e l’accettazione sociale di tali pratiche, rende labile il confine tra le quelle attività praticate a scopo ricreazionale e ciò che, invece, può considerarsi una vera e propria dipendenza.
Nell’ambito delle cosiddette nuove dipendenze (o dipendenze comportamentali), la persona manifesta un’incontrollata necessità di dover compiere una specifica attività (come ad es. scommettere o navigare in rete), per trovare immediata soddisfazione ad un bisogno, che talvolta assume l’accezione di una necessità quasi fisiologica di mettere in atto il comportamento come per il tossicodipendente lo è assumere la sostanza. Il parallelismo con le dipendenze da sostanze, risulta evidente tanto che è possibile individuarne alcuni fattori comuni:
- Dominanza: i pensieri e l’agire dell’individuo sono incentrati esclusivamente sulla sostanza da assumere o, nel caso delle dipendenze comportamentali, sull’attività da svolgere.
- Tolleranza: si manifesta attraverso la crescente esigenza della persona di incrementare sempre di più la quantità di sostanza o di attività svolta, per ottenere lo stesso effetto di piacevolezza.
- Astinenza: Si manifesta nel momento in cui la persona si trova impossibilitata ad assumere la sostanza o mettere in atto il comportamento oggetto della dipendenza.
- Conflitto: trae origine dal comportamento disturbato portando a conseguenze negative che si ripercuotono nella sfera familiare, sociale e lavorativo/scolastica della persona.
- Negazione: si riferisce alla negazione del problema stesso. Tale comportamento è caratteristico della cosiddetta “fase della luna di miele”, cioè quando la condotta determina ancora la sensazione di piacevolezza portando la persona a non rendersi consapevole della propria dipendenza.
- Ricaduta: può presentarsi durante i tentativi di interruzione della dipendenza, nel momento in cui il persona torna alle precedenti condotte dopo un periodo di astinenza.
Sebbene siano stati messi in atto da parte del mondo scientifico diversi tentativi di per una classificazione univoca di tali comportamenti patologici, ad oggi non sono stati trovati dei criteri diagnostici condivisi.
IL GIOCO D’AZZARDO:
Vengono classificati sotto la categoria dei giochi d’azzardo, tutte quelle pratiche ludiche che comportano l’utilizzo di denaro e il cui esito è affidato esclusivamente al caso.
Tali attività affondano le loro radici in tempi lontani, ma mentre un tempo venivano svolte solo in luoghi appositamente adibiti, come ad esempio nei casinò o le bische, oggi il gioco d’azzardo è diventato una consuetudine che la persona può trovare pressoché ovunque. Le tipologie di gioco sono molteplici , basti pensare alla vasta gamma di lotterie istantanee, alle slot machines o alle scommesse sportive; sono di largo consumo, legali e accessibili a tutti.
In diversi casi, come per l’Italia, sono in parte sotto il monopolio statale e rappresentano pertanto una fiorente economia che contribuisce all’introito di denaro nelle casse dello stato. Pertanto non solo è una pratica legalizzata, ma anche fortemente incentivata tanto che oggi, ad esempio si può avere la possibilità di essere pagati in “gratta e vinci” anche agli sportelli degli uffici postali.
In Italia sono circa 35 milioni gli scommettitori, ed è stato stimato che questa attività riguardi circa l’80% della popolazione adulta (Eurispes, 2009). Fortunatamente, per la maggior parte dei cittadini questo rappresenta un semplice passatempo, ma per quasi mezzo milione di italiani costituisce una vera e propria dipendenza. Tale tipologia di addiction presenta una maggiore diffusione nella popolazione maschile rispetto a quella femminile, anche se questa differenza fra i sessi tende a diminuire con l’aumentare dell’età passando da un rapporto di 9:1 a 3:1. Le donne con problemi legati al gambling, infatti, presentano un’età più avanzata rispetto agli uomini con la stessa patologia, ma il percorso che le porta verso la dipendenza è molto più veloce.
Già dagli anni ‘80 la problematica della dipendenza da gioco d’azzardo veniva riconosciuta dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) come una psicopatologia specifica, inserendola all’interno del DSM IV sotto la categoria dei disturbi del controllo degli impulsi. Tale dipendenza si trova spesso in comorbilità con altre patologie come i disturbi affettivi e le altre dipendenze. La caratteristica essenziale che questo tipo di dipendenza condivide con il disturbo del controllo degli impulsi riguarda l’incapacità di resistere all’impulso o a una motivazione a compiere un’azione che è pericolosa per se stesso o per gli altri (APA 1994). Oltre a questo aspetto, sia nel gioco patologico che nel disturbo compulsivo, possiamo riscontrare lo stesso crescente senso di tensione o allarme che si verifica prima di agire, ed il conseguente vissuto di agitazione che scaturisce nel momento in cui il comportamento viene esplicato. Nonostante la relativa risonanza di questa nuova dipendenza, chi ne soffre raramente cerca spontaneamente aiuto nelle strutture sociali che operano nel settore delle dipendenze, dato che il comportamento dello scommettitore viene giustificato dal lui stesso e da chi lo circonda (almeno fino a che il danno economico non diventa ingente) come un vizio o una debolezza innocua della persona. Sostanzialmente la differenza fra l’abitudine sociale del “tentare la fortuna” e gioco d’azzardo compulsivo dipende dalla frequenza, durata e intensità con cui il giocatore mette in atto la propria condotta e dalla gravità delle conseguenze che si ripercuotono in ambito psicologico,sociale,familiare e fisico.
Tuttavia in ambito clinico, si può parlare di gioco d’azzardo compulsivo quando vengono soddisfatti almeno 5 dei criteri clinici previsti nel DSM IV-TR:
- coinvolgimento abituale nel gioco o nella ricerca di denaro per giocare;
- spesso la persona gioca per somme maggiori o più a lungo rispetto a quanto preventivato;
- bisogno di aumentare la considerazione o la frequenza delle scommesse per raggiungere lo stato di eccitazione desiderato;
- irrequietezza o irritabilità se non è possibile giocare;
- ripetute perdite di denaro al gioco e continui ritorni a giocare per rifarsi delle perdite;
- reiterati sforzi per giocar meno o smettere di giocare;
- la persona speso gioca anche quando dovrebbe adempiere a obblighi sociali o lavorativi;
- la persona abbandona importanti attività sociali, lavorative o ricreative per giocare;
- la persona continua a giocare anche se non è in grado di pagare debiti sempre più ingenti.
Tuttavia, come è stato precedentemente citato, non tutti coloro che giocano d’azzardo possono essere considerati giocatori patologici, infatti esistono diversi livelli di gravità del gioco d’azzardo:
- giocatori non problematici: in questa categoria sono compresi i “non giocatori” e i “giocatori sociali”, cioè coloro che utilizzano tale pratica come semplice svago per rilassarsi. Sono in grado di smettere in qualsiasi momento e mantengono la percezione del potenziale rischio economico.
- giocatori problematici: sono soggetti che non posseggono il pieno controllo sull’attività di gioco mettendo a rischio il proprio benessere personale, familiare, lavorativo e sociale.
- giocatori patologici: sono coloro che presentano una vera e propria dipendenza patologica dal gioco d’azzardo.
Il giocatore patologico è spinto prevalentemente da un pensiero di tipo magico. L’idea prevalente, è quella di essere in grado di controllare il gioco (sopravvalutando in questo modo le proprie possibilità di successo) grazie alle proprie abilità e alla fortuna che il giocatore si propizia attraverso vari “riti scaramantici” e feticci portafortuna.
Tale meccanismo, porta il giocatore ad investire sempre più denaro non considerando che ogni scommessa è indipendente dalla precedente; vive nella convinzione di poter accrescere le proprie possibilità di vincita scommettendo ancora, nel tentativo di recuperare il denaro perso. Il comportamento compulsivo verso la scommessa, è spesso associato anche a deficit in determinati compiti strutturati di problem solving; infatti, queste persone perseguono rigidamente il proprio comportamento disadattivo e nonostante i continui feedback che gli imporrebbero di smettere, non cambiano le proprie strategie di pensiero e azione. Si dimostra pertanto ottuso e cocciuto, inaffidabile e irresponsabile. Nonostante l’assenza di denaro da impiegare nel gioco, accumula debiti che non potrà saldare.
Questa difficoltà nel controllo dell’impulso a scommettere, porta l’individuo verso una spirale di comportamenti disadattavi mettendo in atto spesso una condotta mendace e pervasiva che dal gioco si allarga, fino ad investire progressivamente anche la sfera privata e lavorativa. Il circolo vizioso della dipendenza, viene in oltre mantenuto da una serie di rinforzi positivi prodotti dalla sensazione di esaltazione che il giocatore prova ogni volta che vince. La vincita è vissuta come riscatto dalle precedenti perdite e come riprova che il “metodo” utilizzato dallo scommettitore funziona. Questo atteggiamento, associato alla mancata percezione del problema come malattia ed all’erronea convinzione di poter smettere in qualsiasi momento, porta il giocatore che ha superato la soglia del gioco ricreazionale, a non percepire la propria condotta come un problema di dipendenza. Generalmente non vi è una percezione chiara del problema fino a quando la situazione finanziaria dell’individuo non è grave. Alla scoperta da parte dei familiari del problema, spesso la loro reazione oscilla tra emozioni contrastanti, dalla rabbia alla vergogna, dalla vendetta alla disperazione, all’impotenza. In questo modo, l’unica strategia di reazione che i familiari trovano, è quella di infantilizzare il giocatore, che viene trattato come un bambino bisognoso di cure e protezione.
Lo scommettitore, da parte sua, accetta tale atteggiamento il quale viene considerato come uno dei prezzi da pagare per la propria condotta.
Frequentemente il giocatore d’azzardo compulsivo può trovarsi in comorbilità con altre patologie e condotte devianti, come la dipendenza da alcol e sostanze, i disturbi dell’umore e d’ansia, oltre alla tendenza al suicidio. Questa propensione verso un atto così estremo, scaturisce soprattutto dalla situazione sia emotiva che economica in cui il giocatore patologico si trova, presentandosi spesso come l’unica alternativa possibile per sfuggire al suo problema.
I giocatori patologici, non smettono mai da soli, ma necessitano di interventi psicoterapici integrati, di assistenza sociale e legale. Gli interventi che hanno avuto una percentuale elevata di successi prevedono: una fase preparatoria di counseling familiare, dove la famiglia viene “istruita” attraverso simulazioni comportamentali a mettere in atto strategie di pressing psicologico per indurre il giocatore patologico a chiedere aiuto. Una valutazione clinica del paziente, dove viene effettuata una valutazione diagnostica e una verifica del grado di problematicità della condotta, nonché la presenza di altri disturbi comportamentali o neurologici che possono impedire la paziente di smettere da solo. In fine viene predisposto un progetto di intervento terapeutico o di gruppo (dove verranno coinvolti anche i familiari). Una volta che il giocatore patologico ha abbandonato la propria condotta disadattava, viene pianificata una terapia di mantenimento e prevenzione delle ricadute.
LA DIPENDENZA DA LAVORO:
Questo tipo particolare di dipendenza comportamentale, ha una storia abbastanza recente. Viene affrontata per la prima volta da Marilyn Machlowitz nel 1997 definendola workaholic a causa delle somiglianze fra i comportamenti messi in atto da queste persone e gli alcolisti.
Come gran parte delle nuove dipendenze, anche questa non ha ancora trovato una definizione univoca all’interno della classificazione ufficiale psichiatrica e psicologica.
Viene normalmente considerata work addiction, la compulsione lavorativa della persona con dedizione al lavoro superiore alle otto ore al giorno, spesso nel week-end e in altri spazi liberi.
I pensieri e le preoccupazioni di queste persone, sono progressivamente sempre più rivolte al lavoro, fino a creare confusione, dimenticanze e ottundimento del pensiero.
A livello psicologico, queste persone possono mostrare sbalzi d’umore, depressione, perfezionismo, ipercontrollo, ossesioni, paure, fobie, isolamento e disturbi psicosomatici.
A livello fisiologico possono manifestarsi alcuni sintomi caratteristici dello stress quali emicrania, scompensi cardiocircolatori, dolori muscolari, problemi dermatologici e disturbi gastro-intestinali.
Il comportamento tipico del work addicted porta l’individuo ad abbandonare progressivamente tutti gli interessi che non sono connessi alla sfera professionale. Il lavoro in questo modo viene vissuto piuttosto che come fonte di sostentamento personale, come uno stato d’animo che permette alla persona di evitare di provare emozioni, responsabilità e contatto con le altre persone. Il lavoro, per queste persone, diventa così l’unica maniera per dimostrare a se stessi e agli altri il proprio valore, diviene cioè il mezzo attraverso il quale si esprime e dipende, la propria autostima.
Anche per questo tipo di dipendenza, si possono riscontrare alcuni fattori comuni con le dipendenze da sostanze, come la tolleranza, ovvero la necessità di procedere nel lavoro sempre di più, per ottenere il medesimo precedente appagamento psico-fisico e l’astinenza cioè lo stato di sofferenza sempre più grave che viene a crearsi come conseguenza dell’impossibilità di lavorare.
La sostanziale differenza fra coloro che presentano una particolare dedizione nei confronti del proprio lavoro e quelli che invece presentano una vera e propria dipendenza, si rende evidente nel momento in cui il persona non è più in grado di mettere dei limiti all’attività lavorativa e non riesce più a trovare per se stesso un po’ di tempo libero. Il cammino che conduce l’individuo verso la dipendenza da lavoro attraversa tre fasi:
- Fase iniziale: durante questo periodo il persona inizia ad isolarsi progressivamente dalla famiglia, dagli amici e dalle altre attività sociali.
- Fase critica: la persona viene coinvolta il maniera totalizzante dall’attività lavorativa. Compaiono inoltre i primi sintomi psicosomatici a carico dell’apparato digerente e circolatorio (come ipertensione, gastrite, ulcere) accompagnati da sintomi depressivi.
- Fase cronica: la persona, se possibile, incrementa ancora di più l’attività lavorativa. Aumentano d’intensità, i comportamenti aggressivi, l’isolamento e i sintomi psicosomatici.
Il Workaholic quindi, potrebbe soffrire di un disturbo compulsivo che lo porta a mascherare una serie di stati emotivi e a manifestare un’incapacità di adattamento che si esprime con sentimenti di scarsa autostima, paura di perdere il controllo e difficoltà relazionali.
Per quanto concerne le possibili strategie di intervento su questa dipendenza, vengono individuate la psicoterapia individuale, la psicoterapia familiare e la partecipazione gruppi di self-help. Proprio quest’ultimo approccio ha riscontrato particolare successo per la cura del work addiction. È stato formato per la prima volta nel 1983 il self-help Workaholics Anonymous. Questo tipo particolare di intervento, consiste in un gruppo di auto-aiuto in cui i soggetti condividono la loro esperienza, nel tentativo di risolvere il loro comune problema e di aiutare gli altri a superare la dipendenza da lavoro.
I fattori terapeutici di questa tipologia di approccio consistono proprio nella condivisione dei propri problemi con altri individui che stanno superando il medesimo problema (o che lo hanno già superato) e che hanno la funzione di guidare i soggetti nel programma degli incontri. Il setting in cui si svolgono le attività del gruppo è accogliente e protetto ed è garantito l’anonimato; al suo interno vengono elaborati dei programmi di lavoro volti al progressivo abbandono della dipendenza.
LA DIPENDENZA AFFETTIVA:
La dipendenza affettiva (o love addiction) si manifesta tramite la continua ricerca d’amore e la tendenza a dipendere da una determinata persona o nell’impossibilità da parte del persona di fare a meno dell’ “ebbrezza amorosa”e dello stato di innamoramento. L’ebbrezza amorosa, consiste nella particolare sensazione di piacere, che il persona prova quando è con il partner. Questa gli è indispensabile per stare bene e non riesce ad ottenerla in modi diversi. Talvolta, il bisogno della presenza fisica dell’altro è talmente forte che la persona sente di esistere solo quando la persona, da cui è dipendente, gli è vicino.
Questa viene vista come l’unica fonte di gratificazione, le attività quotidiane vengono trascurate e assume come unico elemento rilevante della vita del persona il tempo trascorso insieme alla persona amata.
La persona con love addiction presenta dei vissuti emotivi incentrati sulla figura del partner, infatti, tendono a ignorare o sottovalutare la fatica connessa ai sacrifici che l’individuo deve fare per aiutare la persona amata. Temono terribilmente l’eventualità di venire abbandonanti dal partner e tendono ad assumersi la responsabilità e le colpe della vita di coppia. Presentano una bassa autostima e una profonda convinzione di non meritare la felicità. Tendono, inoltre, ad idealizzare il rapporto e il proprio compagno o compagna, costruendo il proprio futuro ideale attraverso improbabili fantasie.
Questo fenomeno, nel mondo Occidentale, risulta essere particolarmente diffuso soprattutto nella popolazione femminile di tutte le età e in particolar modo in seguito disturbi post traumatici a stress.
Gli interventi di maggior successo per coloro che soffrono di questo tipo di dipendenza, consistono nella psicoterapia individuale o di gruppo. Di solito, queste persone decidono di intraprende un percorso terapeutico quando iniziano a sentirsi sole e si rendono consapevoli di avere “qualcosa che non va”.
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